sabato 23 aprile 2011

Discepoli e annunciatori del Risorto. Responsabilità degli insegnanti di religione (Antonio Pitta)


Responsabilità degli insegnanti di religione

Discepoli e annunciatori del Risorto


di Antonio Pitta

Si è svolto nei giorni scorsi ad Assisi un convegno organizzato dal servizio nazionale della Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Pubblichiamo ampi stralci della relazione, tenuta dal docente di Nuovo Testamento della Pontificia Università Lateranense, dedicata alla figura di Timoteo, collaboratore di san Paolo, discepolo e maestro d’insegnamento della Scrittura.

Riguardo alla formazione biblica non si riscontra nell’Antico e nel Nuovo Testamento un testo più propositivo e programmatico di quello contenuto nella Seconda lettera a Timoteo, poiché in essa il collaboratore prediletto di Paolo è, nello stesso tempo, discepolo e maestro delle sacre Scritture: «Tu però rimani in quello che hai imparato e che ti è stato affidato, avendo conosciuto coloro che te l’hanno insegnato e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste sono capaci di renderti sapiente per la salvezza, mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, divinamente ispirata è utile per l’insegnamento, la convinzione, la correzione e la pedagogia alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (3, 14-17). In questo paragrafo è raccolto un percorso di formazione essenziale che abbraccia l’intera esistenza dell’uomo di Dio, che ovviamente comprende donne e uomini: dall’infanzia sino alla sua maturità umana. Qual è il ruolo della Scrittura nella formazione umana e cristiana in particolare? E in che modo si trasforma da semplice testo letterario e religioso in centro dinamico per la formazione familiare, ecclesiale e scolastica? Come in essa è possibile cogliere un percorso di maturazione che induca ad alimentarsi per l’intera esistenza?

La Scrittura diventa capace di alimentare l’esistenza personale e comunitaria dei credenti non semplicemente quando è letta o interpretata come un comune testo di letteratura classica o un testo scolastico, bensì quando, come precisa la Dei Verbum al n. 12, è «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta». Pertanto lo Spirito precede, accompagna e pervade la Scrittura sia nella sua formazione originaria, sia nella sua ricezione di approdo. In questa fusione pneumatologica di orizzonti risiede la verità della Scrittura, poiché in continuità con l’ispirazione biblica si sviluppa nel tempo e nello spazio l’ispirazione della comunità credente che, guidata dallo Spirito, si pone in ascolto della Parola di Dio.

La natura teo-pneumatica della Scrittura dischiude lo sguardo verso la sacramentalità della Parola finalmente evidenziata nella Verbum Domini n. 56. La Parola di Dio non è un nuovo sacramento, da aggiungere agli altri, bensì il sacramento fontale e sorgivo senza il quale i sacramenti sono concepiti e recepiti come riti magici. Pertanto la sacramentalità della Parola consiste nella trasformazione della Scrittura, come insieme di libri, in Parola di Dio o in Cristo in quanto Parola di Dio: si legge la Scrittura che, con l’azione dello Spirito, si trasforma in Parola.

Per i cristiani l’unica chiave d’accesso alla Scrittura è Gesù Cristo, il risorto, poiché di lui parla la Scrittura e in lui trova il suo compimento, cosicché «l’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo», come sostiene san Girolamo, nel Commento a Isaia. Porre al centro ermeneutico delle Scritture cristiane il risorto significa anzitutto rilevare che la Parola di Dio rappresenta la fonte della fede.

L’impatto della «cristificazione» della Scrittura è fondamentale per l’insegnamento della religione cattolica: soffermiamoci sulle principali implicazioni. Anzitutto è dai Vangeli che bisogna partire per giungere all’Antico Testamento e al resto del Nuovo Testamento, poiché pongono lo studente a vivo contatto con Gesù di Nazaret e con la sua predicazione del Regno in parole e opere. Importante nell’ambito scolastico è segnalare, mediante le fonti extrabibliche, come Flavio Giuseppe, Plinio il Giovane e Tacito, i dati storici su Gesù e sul movimento cristiano che, in pochi decenni, si è diffuso in Palestina e nelle città più importanti dell’impero. In tal modo si evita il pregiudizio spesso ventilato in ambito giornalistico sulla poca credibilità dei vangeli canonici.

Nello stesso tempo un linguaggio esistenziale e che ricalca la narratologia evangelica permette di scoprire la bellezza della sequela di Gesù, sulle orme dei discepoli che lo hanno seguito durante la sua vita pubblica, con le loro povertà umane e il loro entusiasmo. Bisogna riconoscere che in questo versante le categorie evangeliche sul rapporto con Gesù risultano più arricchenti di quelle mutuate dalla storia del dogma. Il nostro mondo ha bisogno di entrare in contatto con un Gesù in carne e ossa che parla al cuore di ogni persona umana e lo attira a sé, mediante le parabole, i miracoli e i suoi sentimenti di compassione per i poveri e gli emarginati. Purtroppo in questo periodo sono diffusi diversi ritratti su Gesù che tendono a ideologizzarlo: semplice maestro di sapienza, profeta per il Regno, predicatore itinerante sul modello dei filosofi cinici. Nonostante l’attenzione massmediale per i vangeli apocrifi, i vangeli canonici sono quanto di meglio e più completo ci è stato trasmesso su Gesù, poiché non presentano fratture tra il Gesù storico e il Cristo della fede. E in questa riscoperta si colloca il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI.

Forse è opportuno rilevare che i vangeli «ispirati» non sono stati inclusi nel canone cristiano a causa di una strategia ecclesiastica successiva, nel periodo della Chiesa imperiale, bensì perché si sono imposti dal basso nelle comunità più importanti della fine e gli inizi del II secolo. Quello del canone prima di rappresentare un orientamento ecclesiale è un fenomeno storico e non risponde ad alcuna strategia politica, altrimenti sarebbero stati purgati nei tratti di discrepanza che arricchiscono il mistero umano e divino di Gesù.

Un livello successivo d’insegnamento riguarda le lettere di Paolo, dove Gesù Cristo non è presentato come un personaggio del passato, bensì come colui che vive nell’apostolo sino a diventare persino il suo vivere. Il kerygma paolino è centrale per considerare la morte di croce come cardine imprescindibile della vita cristiana e la risurrezione di Gesù come evento reale e non mitologico o appariscente. Approdiamo infine agli Atti degli apostoli che raccontano, con sempre più riconosciuto beneficio d’inventario, il diffondersi della Parola di Dio con la missione dei primi testimoni del Risorto. Soltanto in una fase successiva diventa fruttuoso percorrere la storia della salvezza cristallizzata nell’Antico Testamento, superando il pregiudizio marcionita che il Dio dell’Antico Testamento sia della vendetta e quello del Nuovo si riveli dell’amore. La dinamica della promessa e dell’adempimento in Cristo permette di riscoprire la profondità e la ricchezza dell’antropologia e della teologia biblica: non un’antropologia dualistica, bensì olistica e non una teologia astratta, bensì di un Dio che cammina con il suo popolo rivelandosi come suo unico pedagogo.

Un altro orizzonte che il paragrafo della 2 Timoteo, 3, 14-17 pone in risalto è quello della comunicazione della fede: «Tu però rimani nelle cose che ti sono state insegnate e nelle quali credi, conoscendole da coloro che te le hanno insegnate e conosci le sacre Scritture dall’infanzia». Da chi sono stati insegnati a Timoteo i contenuti della fede? E che cosa permette a Timoteo di restare saldo e di non cadere in forme di scetticismo sulla Scrittura e sul senso ultimo della sua esistenza? Bisogna risalire all’inizio del testo per cogliere il fondamento a cui Paolo allude: «Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2 Timoteo, 1,5). La fede non nasce da un insieme d’idee, né dalla semplice lettura della Scrittura, con tutta la libertà e i percorsi della grazia che il Signore sceglie, bensì dalla testimonianza dei propri familiari che diventa tradizione viva. Purtroppo oggi molti studenti provengono da famiglie in frantumi per cui questo paradigma della trasmissione della fede mediante i propri genitori risulta ai più una semplice utopia. Tuttavia, si parta dall’assunto che senza l’interazione con i genitori non è possibile alcuna formazione umana e cristiana a scuola. E nelle situazioni più drammatiche il ruolo del docente, che non sostituisce in alcun modo quello dei genitori, deve assumere i tratti di una genitorialità che passa attraverso la propria testimonianza. Il docente di religione non è chiamato semplicemente a comunicare verità religiose astratte o ideologiche ma a porre a contatto, mediante la propria vita, con il Vangelo che è Cristo stesso. In molti ambiti scolastici gli studenti attraversano la fase del rigetto dell’autorità: non bisogna scoraggiarsi, bensì con la propria presenza discreta e con la testimonianza di fede attendere che per questa via, giungano a riscoprire, con il tempo, l’importanza di quanto li rende saldi e non vacillanti. Quello dell’insegnamento della religione cattolica, come di qualsiasi insegnamento, è anzitutto un carisma, mediante il quale «la Scrittura divinamente ispirata è utile per convincere, correggere ed educare alla giustizia».

(©L'Osservatore Romano 24 aprile 2011)