giovedì 14 luglio 2011

Il volto di Cristo e il mistero dell’uomo "Segno immortale nella terra della modernità" (Antonio Paolucci)



Il volto di Cristo e il mistero dell’uomo

Segno immortale nella terra della modernità

In mostra opere delle collezioni dei Musei Vaticani dall’arte classica al secondo Novecento

Il 14 luglio ai Musei Vaticani il direttore ha presentato la mostra «L’Uomo, il Volto, il Mistero. Capolavori dai Musei Vaticani» che sarà aperta dal 20 agosto al 6 novembre nei Musei di Stato della Repubblica di San Marino. Pubblichiamo integralmente il discorso.


di Antonio Paolucci

Com’era il «vero» volto di Cristo? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Il primo secolo della nostra era, almeno nella parte del mondo destinata a diventare cristiana, è gremito di ritratti perché l’arte greco-romana è naturalistica e illusionistica. Gli artisti erano affascinati dalla rappresentazione dei caratteri fisionomici e psicologici delle persone. E infatti centinaia, migliaia di volti sfilano davanti ai nostri occhi quando visitiamo le grandi collezioni di statuaria antica.

Sono uomini e donne, sono imperatori e generali, sono mercanti e liberti, soldati, atleti, filosofi, coppie di coniugi che si danno la mano sul fronte dei sarcofagi, bambini e bambine che hanno lasciato prematuramente questo mondo consegnandoci in mestizia le loro amate sembianze.

Ma il ritratto di un ebreo non lo troverete mai. Non c’è, non può esserci. La cultura ebraica era ed è rigorosamente aniconica. Era interdetta la rappresentazione dell’immagine umana. San Paolo che era giudeo di sangue, di legge e di sinagoga e che deve aver fatto molta fatica a scrivere (nella prima ai Colossesi) essere Cristo èicon (immagine) del Dio vivente, avrebbe considerato con repulsione l’idea del suo volto riprodotto in pittura o in scultura.

Quando il giudaismo diventato cristiano occupò l’ecumene ellenistica romana si verificò, prima con gradualità poi con flagrante evidenza, il fatto grande e provvidenziale dal quale ha avuto origine la «nostra» storia artistica. Accadde cioè che il mondo delle figure traducesse in forme visibili i messaggi dell’aniconico giudaismo cristianizzato.

Fra il terzo e il quarto secolo della nostra era, la Chiesa ormai diffusa e strutturata decise di giocare il grande e geniale azzardo. Accettò e fece proprio il mondo delle immagini e lo accettò nelle forme in cui lo aveva elaborato la tradizione iconografica e artistica ellenistico-romana.

Avvenne così che Cristo Buon Pastore assumesse il volto di Febo Apollo o di Orfeo o del Sole Invitto, che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole l’atleta nudo vittorioso, che le Nikkei volanti diventassero Angeloi, i messaggeri dell’Altissimo.

Fra le opere selezionate dalle collezioni d’arte dei Musei Vaticani per onorare la visita del Santo Padre nella Repubblica di San Marino, c’è una coppia di ampolle in argento sbalzato e cesellato databile fra vi e VII secolo. Rappresentano, l’una e l’altra, le immagini dei Protoapostoli Pietro e Paolo di profilo e a mezzo busto.

Siamo nell’epoca che l’antica storiografia definiva «barbarica». L’Impero si è dissolto, i vecchi culti sono emarginati e repressi, si va lentamente offuscando la memoria della civiltà classica. Eppure, l’anonimo artista che ha dato immagine ai volti di Pietro e di Paolo è ancora in grado di dominare i repertori figurativi della tradizione. Lo vediamo nei girali continui di foglie d’acanto che circondano le figure, nella forte caratterizzazione naturalistica dei ritrattati. Ecco allora che Pietro, il pragmatico terrestre Pietro che ha il compito di guidare nelle insidie del mondo la Chiesa professante e combattente, è caratterizzato come se fosse portatore di una tranquilla virile autorità. È l’equivalente di un autocrate, di un nobilissimus di quei tempi. Mentre Paolo, calvo, barbato, il profilo inquieto e sagace è, per adesso e per sempre, la figura dell’intellettuale. È il teorico della ortodossa dottrina, è il filosofo che chiede di confrontarsi con Platone e con Plotino.

Gli antichi avevano capito che il volto non è soltanto lo specchio dei caratteri fisici e psicologici del ritrattato. È molto di più. È la messa in figura della cultura e della società di cui il ritratto fa parte. Egli deve apparire come lui stesso si vede, come dagli altri vuole essere visto, come la società, la cultura, il costume vogliono che appaia.

La lastra di timpano della tomba di Claudia Semne ci consegna l’immagine di una defunta che due eroti alati presentano alla memoria e al rimpianto della famiglia e degli amici. Il ritratto è così implacabilmente vero che l’impressione è quella di un calco mortuario. Abbiamo di fronte a noi una donna di mezza età, non vecchia ancora, di medio rango sociale ed economico, dal carattere severo, autoritario, volitivo.

La restituzione psicologica è implacabilmente oggettiva. Lo è al punto di riuscire imbarazzante. Perché una donna come questa, dalla faccia così italiana, dal carattere così evidente, ognuno di noi la conosce o l’ha conosciuta. Allo stesso modo abbiamo conosciuto o possiamo facilmente conoscere un italiano calvo, corpulento, intelligente e vitale, vocato alla politica e agli affari, come il Clelio Balbino di cui i Musei Vaticani custodiscono la testa in bronzo dalla magnifica patina verde.

Naturalmente nulla si presta alla esaltazione del potere meglio del ritratto. I Romani lo sapevano bene. Per questo moltiplicavano ai quattro angoli dell’ecumene, dalla Britannia all’Africa, dall’Iberia alla Siria, le immagini scolpite dell’autocrate di turno. I busti di imperatori che gremiscono le sale dei musei del mondo (in mostra presentiamo l’immagine di Traiano) realizzati in marmi bianchi e policromi, in alabastro, in bronzo, sono la eloquente dimostrazione dell’uso massiccio, pervasivo, generalmente omogeneo nella tipologia e nella iconografia, del ritratto usato come icona del potere e come formidabile strumento di propaganda politica.


Percorrendo la mostra costruita esclusivamente con materiali artistici provenienti dalle Collezioni Vaticane possiamo vedere come il volto dell’uomo si presti, con straordinaria duttilità ed efficacia, agli usi ideologici più diversi. Può essere, lo abbiamo visto, rappresentazione simbolica del potere. È una costante che attraversa tutta la storia della umanità: dai Faraoni dell’Antico Egitto alle icone novecentesche di Mussolini, di Stalin, di Mao. Può caricarsi di valori universali, estetici ed eroici.

Così l’immagine di Antinoo (il busto marmoreo delle Collezioni Vaticane) ha attraversato due millenni per significare, nei più diversi contesti artistici e letterari, l’immenso invincibile potere della Bellezza e dell’Eros. Non diversamente il poster del Che Guevara è stato, per le generazioni del secondo Novecento, emblema di metastoriche virtù rivoluzionarie.

A volte il ritratto può essere documento di mutazione di civiltà e di cultura. Esempio perfetto è la scultura di Palmira che abbiamo portato in mostra. Il prototipo di questa figura femminile viene dall’ellenismo, dalla ritrattistica romana aulica, ma c’è nella immagine una fissità da idolo orientale, una ricerca di icasticità e al tempo stesso di espressività che ritroveremo fra qualche secolo nell’arte bizantina.

Questa scultura è arrivata nelle Collezioni Vaticane per donazione di Federico Zeri (1999). L’agnostico Zeri era affascinato dai mutamenti di civiltà, dalle trasformazioni profonde che le ideologie e le religioni producono sulle forme figurative. Non per nulla, da giovane, aveva scritto il libro memorabile Pittura e Controriforma, sull’arte senza tempo di Scipione Pulzone da Gaeta.

Allo stesso modo il medaglione con ritratto familiare di coniugi con bambino ci parla di una civiltà classica che sta dissolvendosi, che ancora non ha trovato forme nuove di auto rappresentazione.

Il fatto è che con l’avvento del cristianesimo (è in mostra una delle più antiche raffigurazioni della Natività frammento di sarcofago) la storia di tutti e di ognuno da circolare diventa lineare. Il tempo (quello individuale e quello collettivo) muove verso «nuovi cieli e nuove terre». Ogni vivente sa di essere un progetto e un destino immortali. Il destino dell’uomo sulla terra evocato da Francesco Messina con i bronzetti di Adamo ed Eva e del Castigo, è orientato verso la salvezza, anela disperatamente a esorcizzare l’insignificanza e la morte. Ed ecco entrare nella storia delle arti l’immagine salvifica e consolatrice del Volto Santo.

Quel Cristo di cui non conosciamo l’immagine perché la cultura ebraica non permetteva la rappresentazione delle umane sembianze, è stato fatto proprio, elaborato, trasfigurato dagli artisti dell’ipericonico immaginifico Occidente. Quante Imago pietatis in Vaticano, nei musei e nelle chiese del mondo!... Quante Flagellazioni, Coronazioni di spine, Crocifissioni, Discese nel sepolcro. Quante immagini di Cristo a commentare ogni episodio, ogni miracolo del Vangelo.

Per secoli e secoli, molte generazioni di donne e di uomini hanno cercato il Suo volto. Nei santuari e nelle venerabili basiliche hanno creduto di riconoscerlo nelle immagini acherotipe, nelle reliquie del Velo della Veronica, nelle icone medievali come quella che, nei Musei Vaticani, porta il numero di catalogo 40.020.

La mostra vuole farci intendere come, nel Novecento, l’immagine dell’Uomo e, insieme, quella di Cristo, sia stata offesa, umiliata, straziata. Gli artisti della nostra epoca ce lo fanno intendere con dolorosa evidenza.

Così Pirandello nella sua disarticolata, ammaccata Crocifissione, così il Manfrini della Mater dolorosa, così il Fazzini della Veronica. Non poteva essere diversamente nel secolo di Auschwitz e di Hiroshima, nel tempo in cui soltanto la Sindone (penso alla memorabile mostra di Jean Clair a Venezia nel 1995) può essere assunta a veritiera icona della condizione umana.

Eppure la tenace memoria salvifica del Volto Santo vive nel mosaico di Severini e, soprattutto, nella Sainte Face di Rouault. Dietro Rouault ci sono i Volti Santi silenziosi e ieratici della scultura romanica. Ma il suo non è un revival, non è compiaciuto citazionismo. È, al contrario, la consapevole pervicace emersione dagli abissi della storia della icona salvifica. È il «segno» immortale che afferma la sua presenza nella terra desolata della modernità.

© L'Osservatore Romano 15 luglio 2011