sabato 10 settembre 2011

Ricordo e impegno (Robert Imbelli)



Ricordo e impegno



A Boston, New York e Washington D.C., l’11 settembre 2011 era radioso e senza nuvole, una perfetta giornata di fine estate. Chi ha vissuto il suo inizio e poi l’orrore che è seguito non può non ricordare quel giorno senza un moto di tristezza. Tuttavia, il ricordo della tragedia, come l’anamnesi della liturgia, può servire da esortazione a un impegno e a una comunione rinnovati.

Il beato John Henry Newman ci ha insegnato a distinguere fra comprensione speculativa e reale. La prima, per quanto importante, resta astratta e concettuale. La seconda è concreta ed esperienziale, e sprona all’azione. La tragedia dell’11 settembre evoca la comprensione viva di quattro verità.

La prima: la passione e la convinzione religiose possono stimolare il bene, ma possono anche alimentare il fanatismo mortale. Per divenire dono di sé, l’impegno religioso deve essere temperato dal discernimento della ragione. Un importante testo del Nuovo Testamento, spesso citato da Benedetto XVI, è l’inizio del dodicesimo capitolo della Lettera ai Romani. In esso l’apostolo ci esorta a impegnarci nel «culto spirituale» (logikèn latrèian). Questo culto «secondo il logos» comporta che «l’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore» (Romani, 13, 10). Per il Papa la fede autentica non può disprezzare la ragione, ma la purifica e la perfeziona.

La seconda verità è che molto spesso diamo per scontato e non riusciamo a riconoscere la preziosità del dono della vita e dell’amore. Molti giovani, dopo l’11 settembre, hanno riletto l’enciclica del beato Giovanni Paolo II Evangelium vitae e ciò li ha sfidati a fare propria, in modo più pieno, quella visione di un umanesimo integrale. Sono arrivati a comprendere che una visione veramente cattolica integra la sollecitudine per il feto nel grembo materno, per la vedova e per l’orfano, per il rifugiato e per l’anziano. Non mette questi interessi in competizione fra loro, ma li inserisce in un impegno unico per il Signore che è venuto affinché «tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Giovanni, 10, 10).

In terzo luogo, l’11 settembre ha rivelato in modo traumatico la precarietà assoluta della vita umana. Tutte le nostre aspirazioni e i nostri traguardi possono essere spazzati via in un attimo. «Come l’erba sono i giorni dell’uomo. Lo investe il vento e più non esiste» lamenta il salmista (103, 15-16). Alla luce di questa consapevolezza tutti possono sicuramente prendere a cuore l’esortazione della tradizione buddista: «Siate consapevoli!». La sfida spirituale rivolta a ciascuno è di essere consapevoli del momento attuale e della presenza preziosa dell’altro. La tradizione biblica, echeggiata quotidianamente nella liturgia delle Ore, insiste: «Se ascoltaste oggi la sua voce! “Non indurite il cuore”» (Salmi, 95, 7-8)! E tanto spesso la voce di Dio parla attraverso la voce del nostro prossimo, attraverso la sua gioia e la sua speranza, il suo dolore e la sua afflizione.

Infine, rimane il ricordo più vivido di quel giorno terribile, non cioè l’odio dei terroristi, ma il sacrificio coraggioso dei soccorritori, i primi a reagire. Sia che fossero cristiani o ebrei, musulmani o di nessuna fede religiosa dichiarata, quegli uomini e quelle donne hanno osservato l’insegnamento di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni, 15, 13). La loro è stata una solidarietà vissuta, anche fino alla morte.

Tuttavia, la speranza cattolica trascende perfino questa generosa solidarietà terrena. Non si limita soltanto alla vita attuale. La nostra grande speranza comprende anche la risurrezione dai morti e la vita del mondo che verrà. Come scrive Benedetto XVI nella sua splendida enciclica Spe salvi: «Dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c’è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile» (48).

Queste sono la preghiera e la speranza che i credenti recheranno nel cuore quando si riuniranno nel giorno del Signore per ricordare il decimo anniversario dell’11 settembre e per celebrare, ancora una volta, la comunione di tutti in Cristo.

© L'Osservatore Romano 11 settembre 2011

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