martedì 27 settembre 2011

Solo il perdono sradica l’odio (Marc Ouellet)




Omelia per l’11 settembre del cardinale prefetto della Congregazione per i Vescovi

Solo il perdono
sradica l’odio

Pubblichiamo integralmente il testo dell’omelia che il cardinale prefetto della Congregazione per i Vescovi ha pronunciato l’11 settembre scorso — XXIV domenica del tempo ordinario — in occasione del pellegrinaggio dei presuli ordinati nell’ultimo anno presso la basilica di San Pietro.

di Marc Ouellet

Oggi ricorre il triste anniversario della distruzione delle «torri gemelle» di Manhattan avvenuta l’11 settembre 2001. Tornano alla mente tutte quelle immagini allucinanti di quella orribile tragedia che ha gettato il mondo nella costernazione e in una insicurezza permanente. Tutto il decennio è stato contraddistinto da questo attentato che ha destabilizzato l’equilibrio politico del pianeta e ha compromesso profondamente l’equilibrio della pace. Un tale ricordo ci introduce immediatamente nel mistero del male presente nella storia del mondo, male tanto più odioso quanto si unisce, a volte, a sedicenti motivazioni religiose. Nella storia dell’umanità, odio e violenza non generano che guerra e la guerra è sempre un male, un male minore in certe circostanze, ma sempre un male che non porta mai a delle vere soluzioni. Dieci anni or sono, in risposta a questo attentato di New York, il beato Giovanni Paolo II ha fatto organizzare un incontro interreligioso ad Assisi, un giorno di preghiera per la pace. Questo gesto ha ricordato al mondo che le religioni, tutte le religioni, sono delle sorgenti per la pace e che chiunque uccide in nome di Dio, tradisce l’autentica religione.


È veramente interessante che questo triste anniversario coincida con la domenica nella quale la liturgia parla molto esplicitamente del perdono. «Chi si vendica avrà la vendetta dal Signore», scrive Ben Sirach il Saggio, «ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati. Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati». Questa massima è ripresa nel Vangelo in una maniera più profonda e radicale: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Questa risposta significa che il perdono deve essere costante e senza misura. Gesù aggiunge una parabola che contiene una sola esigenza: colui che è stato perdonato, a sua volta deve perdonare.

Si potrebbe obiettare che la risposta di Gesù si riferisce a una morale individuale, ma che non è pertinente circa la morale sociale, quando delle gravi offese distruggono la pace pubblica. Non è, quindi, necessario avere come prioritaria l’esigenza di ristabilire la giustizia? Ma la giustizia può essere ristabilita senza la carità che perdona? L’enciclica Caritas in veritate ci insegna a non opporre carità e giustizia e che «la carità completa la giustizia nella logica del dono e del perdono» (n. 6). La storia del mondo è contrassegnata da guerre micidiali che sono state condotte in nome della giustizia. Solo il perdono può vincere l’odio e la violenza. L’obiezione contro la parabola di Gesù non è valida.

Osserviamo attentamente il senso profondo della parabola: rivela il disegno di Dio di ricostruire l’umanità attraverso il suo perdono universale che deve generare nuove relazioni tra gli uomini. Dio perdona le mancanze, gratuitamente e senza condizione. Una tale grazia ci è offerta in Gesù Cristo senza alcun merito nostro, e tale grazia ci dispone a un atteggiamento di bontà e di misericordia nei riguardi dell’altro. Diversamente la misericordia di Dio è tradita e disprezzata. Non ci si prende gioco di Dio.

La Sacra Scrittura ci rivela così il volto di un Dio ricco di tenerezza e di misericordia, che si compiace nel perdonare. Tuttavia, non dimentichiamo che Dio è il Dio dell’Alleanza, che attende pertanto da parte nostra una risposta che faccia beneficiare i nostri simili del perdono gratuito e incondizionato che noi abbiamo ricevuto.

Quando Gesù parla del perdono, bisogna avere presente la sua bella preghiera sulla Croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 34). Gesù intercede per coloro che lo stanno crocifiggendo. O meglio, egli li scusa. Tutto ciò perché Dio sa vedere nel cuore dell’uomo e vede che nessun uomo calcola pienamente la portata delle sue offese. Siamo chiamati a rivolgere ai nostri fratelli questo sguardo di misericordia che Dio rivolge a loro e a noi. Senza di ciò non esistono più possibili relazioni umane, è la guerra, è il ciclo infernale della vendetta. Il perdono sradica ed elimina l’odio. Ogni peccato merita il perdono; ma il rifiuto del perdono rende impossibile di beneficiarne noi stessi. La parabola di oggi lo mostra chiaramente e il Padre nostro ci ricorda ogni giorno quale debba essere la nostra vigilanza in materia di perdono.

Cari fratelli, viviamo il momento fra i più significativi del nostro pellegrinaggio alla tomba di san Pietro, in quanto vescovi eletti e ordinati da poco, per far parte del collegio dei successori degli apostoli. La Parola che noi abbiamo ascoltato, il luogo in cui ci troviamo riuniti in assemblea, il ricordo della suprema testimonianza del primo degli apostoli, tutto ci aiuta a plasmare la nostra identità di servitori del Signore nel ministero episcopale.

La parola di san Paolo ai Romani, che lui stesso a suggellato con il proprio martirio, si applica in modo tutto particolare alla nostra vocazioni di ministri del Signore: «Fratelli, nessuno di voi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore».

A noi, oggi, interessa guardare il nostro ministero episcopale mettendoci nella giusta prospettiva del perdono, di cui parlano i testi sacri. Infatti, il ministero che noi dobbiamo compiere nel nostro mondo ferito è un ministero di pace e di riconciliazione. Al seguito di san Pietro e di san Paolo che hanno annunciato Cristo con il prezzo della loro vita, la nostra carità pastorale deve sgorgare quotidianamente dalla nostra comunione con il corpo e il sangue del Salvatore. Offriamoci sinceramente a Lui in questa Eucaristia solenne con il popolo che ci è stato affidato, affinché, in noi, risplenda il Suo sacerdozio e che la nostra fedeltà lasci trasparire il volto misericordioso del Salvatore.

Prendiamo, anche, coscienza che il nostro ministero è un ministero di unità che affonda le radici nell’unità del collegio apostolico. Infatti, l’amore e il perdono, di cui noi siamo dei testimoni privilegiati, dovrebbero cominciare tra noi vescovi, ed estendersi ai nostri presbiteri e risplendere sulle nostre comunità diocesane.

Dio ha voluto che noi fossimo benedetti dal ministero di unità di Sua Santità Benedetto XVI, la cui sapienza e saggezza risplendono al di là delle frontiere della Chiesa, sull’esempio del beato predecessore Giovanni Paolo II. Rimaniamo in profonda comunione con lui, attraverso l’affetto filiale e l’obbedienza, non solo perché è dotato di un carisma eccezionale circa l’insegnamento che edifica anche gli stessi non credenti, ma soprattutto e semplicemente perché egli è il Papa, il successore di Pietro, colui al quale il Cristo ha affidato la sua Chiesa. Amen.

© L'Osservatore Romano 28 settembre 2011