lunedì 31 ottobre 2011

Quella beatitudine che attende ogni uomo (Inos Biffi)




Quella beatitudine che attende ogni uomo


di Inos Biffi

Ogni uomo nasce portando in sé, come motivo del suo esserci, quello di diventare conforme a Gesù Cristo, ossia la vocazione alla santità, che può essere esattamente definita come conformità a Gesù Cristo. D’altra parte, il motivo per cui Dio crea l’uomo è la sua associazione allo stesso destino del Signore, e quindi come predestinato in lui, anzi condestinato con lui. Nessun uomo è mai esistito, se non per questa ragione.

Non c’è mai stato spazio per un uomo puramente naturale, ideato fuori dalla grazia. Non che questa grazia sia necessaria. Sarebbe potuto esistere un uomo non in grazia; solo che noi ignoriamo come sarebbe stato, dal momento che un uomo estraneo al disegno di Cristo non è mai esistito, così come non è mai esistito un uomo con un duplice fine ultimo, quello che possiamo chiamare naturale e quello soprannaturale.

La beatitudine come comunione con la gloria di Gesù risorto è sempre stata l’unico fine dell’uomo, restando vero che ogni risorsa umana trova in essa la sua riuscita e il suo compimento. Il primo uomo è stato creato in grazia — scrive Tommaso d’Aquino — così come lo furono anche gli angeli (cfr. Summa Theologiae, I, 62,3; 95,1).

Ma sentiamo l’apostolo Paolo. Anzitutto egli afferma che Cristo «è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili»; che «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui»; che «egli è anche il capo del corpo della Chiesa»; ed «è principio di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose» (Colossesi, 1, 1-18). Senza relazione o riferimento a Cristo — va notato, infatti, che qui Paolo non parla del Verbo in sé, ma del Figlio di Dio risorto da morte — non esiste e non è mai esistito assolutamente nulla. Gesù rappresenta, noi diremmo, la causa strumentale («per mezzo di lui»), formale («in lui») e finale («in vista di lui») di tutto. Ogni cosa trova in lui la motivazione, il prototipo e il traguardo. Ed è precisamente quello che intendiamo dicendo che l’universo è creato in grazia, dal momento che Cristo è personalmente la Grazia.

In particolare, per quanto riguarda noi uomini, Paolo afferma che «siamo stati scelti in Cristo prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui, predestinandoci a essere per lui figli adottivi, mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Efesini, 1, 4-5); il destino così assegnatoci da Dio è quello di essere «conformi all’immagine del Figlio suo», così che questi sia «il primogenito di molti fratelli» (Romani, 8, 29).

Tre cose allora risultano chiare: che la santità, prima di essere un proposito e una iniziativa dell’uomo, è una vocazione di Dio iscritta nella sua stessa creazione dell’uomo; che Dio stesso determina e delinea i tratti della santità, quale conformità a Gesù Cristo; e, infine, che nessuno è escluso, ma tutti vi sono chiamati, dal momento che — sono ancora parole di Paolo — «Cristo Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Timoteo, 2, 6). Dio non fa preferenze (cfr. 1 Pietro, 1, 17; Atti degli apostoli, 10, 34): quando un uomo è da lui creato, lo è unicamente perché sia suo figlio nel Figlio; del resto — come noterà san Tommaso — «il sangue di Cristo» è «la sola e unica causa di salvezza di ogni uomo» (Summa Theologiae, III¸60, 3, ob. 2).

Se la chiamata alla santità è inclusa nella natura e nel fine stesso dell’uomo, nessuna situazione storica, come tale, la può compromettere, nel senso che la grazia di essere santi è offerta a tutti, qualunque sia l’epoca o la cultura in cui si nasce, il popolo o la stirpe a cui si appartiene, le inclinazioni o il temperamento che uno si ritrova ad avere, fossero anche quelli meno umanamente felici e desiderabili.

Anzi, è proprio della potenza di Dio — che è poi la potenza della Croce — operare e riuscire nei grovigli più intricati e nelle circostanze più compromesse, più desolate, che il peccato originale ha lasciato come suo segno e sua eredità nello stato dell’uomo. Non vi è assolutamente nulla all’esterno dell’uomo o nel suo intimo che possa intralciare o compromettere l’eterna intenzione divina che lo vuole come suo figlio adottivo.

Il legame di amore, che in Cristo Gesù tiene stretto Dio all’uomo, fa stravincere l’uomo su tutto. A infrangerlo non riuscirebbero — direbbe Paolo — «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura» (Romani, 8, 38-39). La santità non proviene da un frangente nativo che le risulti particolarmente propizio — un bel carattere, un ricco patrimonio di doti, un contesto sociale o familiare qualificati, o altro. Essa è sempre e per tutti un miracolo assoluto dell’onnipotenza divina, sufficiente in ogni circostanza, secondo le parole di Gesù: «Ti basta la mia grazia» (2 Corinzi, 12, 9): una grazia che sa tessere la trama del disegno divino, passando tra gli orditi umani che sembrano i meno adatti e convenienti. È così che avviene il prodigio di una santità multiforme. Nessun santo risulta uguale a un altro.

Ciascuno ha la sua fisionomia quale sintesi della propria nativa povertà e della onnipotente e illimitata fantasia di Dio, che non fa i santi in serie. Per questo non c’è motivo di rammarico, e non vi è ragione di invidiare qualcuno o essere gelosi di chi ci appare maggiormente provveduto di doti e di risorse; è stato l’identico amore di Dio che ci ha fatto nascere plasmati diversamente, ma allo stesso modo colmi della sua illimitata misericordia, della quale siamo tutti ugualmente, anche se differentemente, frutto.

Anzi, il primo e difficile atto di fede consiste nell’accettarci dalla mano di Dio con serenità, così come siamo, anche se sgraziati e sconnessi dal profilo umano, persuasi che la sua azione non viene affatto impedita dalle nostre carenze né compromessa dalle nostre scarsezze, e che alla sua volontà riesce l’impossibile. Tutto concorre al loro bene (cfr. Romani, 8, 28). E il Paradiso sarà così il luogo dove eternamente si canteranno le sue misericordie.

Che tutto sia grazia lo aveva, per così dire, scoperto Teresa di Lisieux, prima che Bernanos lo affermasse nel Journal d’un curé de campagne. A qualche mese dalla morte aveva osservato: «Se un mattino mi trovaste morta, non angustiatevi. Senza dubbio è una grande grazia ricevere i Sacramenti; ma, quando il buon Dio non lo permette, è bene lo stesso: tutto è grazia» (Derniers entretiens, 5 giugno 1897). Ma qui viene in mente anche la drammatica considerazione di Baudelaire, che Mauriac porta in esergo allo sconcertante romanzo Thérèse Desqueyroux: «Signore, abbi pietà, pietà di quelli e di quelle che sono folli! O Creatore! possono esistere dei mostri agli occhi di Colui che sa perché esistono, come essi “si sono fatti” e come avrebbero potuto “non farsi”?». Agli occhi degli uomini sì, ma a quelli di Dio non esistono dei miserabili. Ed ecco allora le parole di Teresa d’Avila, ancora una volta in esergo al non meno inquietante Le neud de vipères sempre di Mauriac: «O Dio, considerate che noi non comprendiamo noi stessi e che non sappiamo quello che vogliamo, e che ci allontaniamo infinitamente da quello che desideriamo».

Abbiamo detto che nessun impaccio è capace di inceppare l’intenzione salvifica di Dio: In realtà vi può essere un impedimento, quello rappresentato dallo sconcertante rigetto dell’uomo, che la può rifiutare. Ma allora non santo non è chi sia nato umanamente troppo limitato e carente, ma chi si è deliberatamente sottratto alla grazia. Solo Dio, comunque, vede chi è santo: «Il Signore conosce quelli che sono suoi» (2 Timoteo, 2, 19).

Quanto alla Chiesa, induce la santità da alcuni sintomi significativi. Proponendo, poi, con la canonizzazione qualche cristiano a modello, non intende affatto escludere che ce ne siano altri anche più santi, e che essa ignora; né si propone di insegnare che quel discepolo di Cristo debba essere semplicemente «copiato», o che sia imitabile in tutto quello che ha fatto, ma soltanto che, secondo il suo giudizio illuminato dallo Spirito Santo, l’insieme conclusivo della sua vita può essere un esempio e un riferimento anche per noi. Ognuno ha la propria via alla santità. Soltanto Gesù Cristo è assolutamente imitabile in tutto e in ogni momento della sua vita.

© L'Osservatore Romano 1 novembre 2011