martedì 27 dicembre 2011

Gesù vero Dio e vero uomo "Lo scandalo della familiarità" (Inos Biffi)



Gesù vero Dio e vero uomo

Lo scandalo della familiarità

di Inos Biffi


Gesù di Nazaret, Figlio di Dio: è l’originalità inattesa e sorprendente, o, come si dice, l’essenza del cristianesimo, su cui regge e da cui proviene tutto il Vangelo. La «buona notizia» non è che «il figlio del falegname» (Matteo, 13, 55) sia veramente uomo. Questo è immediatamente ovvio e non provoca nessuno stupore. In altre parole: a impressionare non è che ci fosse un uomo chiamato Gesù, che aveva come padre Giuseppe, come madre Maria, con dei «fratelli» di nome «Giacomo Giuseppe, Simone e Giuda», e con delle «sorelle» (Matteo, 13, 55-56), ma ciò che in lui appariva eccedente a una condizione umana “normale” e ad essa non riducibile: la sua sapienza, i suoi prodigi (Marco, 6, 2).

La storia di Gesù nei vangeli è esattamente la storia di questa irriducibilità, o degli eventi mirabili (mirabilia) che — senza alterare la dimensione umana del figlio del falegname, ma lasciandola intatta e normale — ne facevano intuire il profondo mistero e ne lasciavano trasparire l’intima identità divina, ossia quella identità, che apparve in tutta la sua luce nel prodigio della risurrezione, quando Gesù fu veduto come Signore — «Abbiamo visto il Signore!» (Giovanni, 20, 25) .

Quel vangelo era incominciato con la definizione di Gesù come Verbo che «era in principio», che «era al cospetto di Dio», «che era Dio» (Giovanni, 1, 1), o come «l’Unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre» (Giovanni, 1, 18); e terminava, dopo l’esperienza o la constatazione della sua storia, con lo stesso riconoscimento. D’altra parte, è dichiarato espressamente che era stato scritto per suscitare la fede in Gesù: «il Cristo, il Figlio di Dio» (Giovanni, 29, 31).

Ed è, in realtà, quanto vale per tutti i vangeli. Questi non sono stati scritti per narrare la vicenda di un semplice uomo, sia pure eccezionale per le sue doti o le sue imprese, ma per attestare la fede, storicamente fondata, in Gesù Figlio di Dio.

O anche: i vangeli nascono come attestazione e proclamazione di questa sorpresa, che attraversava e sosteneva la comunità di quanti erano diventati discepoli di Gesù non perché egli fosse un uomo eccezionale, ma alla fine perché egli era il Figlio di Dio fatto uomo.


Gli «avvenimenti» «trasmessi da quelli che ne furono testimoni oculari fin dal principio e divennero ministri della Parola» interessavano per la fede che avevano fondato e suscitato, ed è la ragione dello scrupolo storico di Luca, che a sua volta intende scriverne «un resoconto ordinato», «dopo ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi» (Luca, 1, 1-3). Quanto al vangelo di Marco incomincia con le parole: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marco, 1, 1).

Ma sembra che proprio questo aspetto che concerne in maniera unica Gesù di Nazaret, questo suo essere «veramente figlio di Dio» (cfr. Matteo, 27, 54), sia una verità che si sta in qualche modo annebbiando e quasi passando in secondo ordine, rispetto al riconoscimento di Gesù come vero uomo.

Ci sono teologi e biblisti che si ritengono scientifici, se fanno di tutto per creare difficoltà e intralci al riconoscimento della divinità di Gesù, che in realtà è quanto appare con luminosa chiarezza nella Scrittura neotestamentaria.

Certo, che Gesù sia «Dio da Dio», «Dio vero da Dio vero», il Figlio eternamente generato dal Padre, è una verità disorientante, anzitutto per la tradizione teologica ebraica, che difficilmente poteva sopportarla e non giudicarla una bestemmia; ma proprio per questo è sorprendente che il riconoscimento di Gesù Figlio di Dio sia avvenuto proprio dagli ebrei, a cominciare dai Dodici, che lo hanno veduto e udito (cfr. 1 Giovanni, 1, 1-3), che hanno mangiato e bevuto con lui (Atti, 10, 41) e sono vissuti con lui (cfr. Atti, 1, 21).

Non avrebbe procurato reazione né prodotto smarrimento una creatura particolarmente legata a Dio: un profeta, un messaggero divino, un mediatore scelto e da lui prediletto. La stessa storia di Israele ne aveva riconosciuti (Giovanni il Battista, Elia, Geremia) come appare dalla risposta di Pietro alla domanda di Gesù sul giudizio della gente riguardo alla sua identità (Matteo, 16, 13, 14).

Ma non appariva invece sopportabile ed equivaleva a una bestemmia la pretesa di un uomo, Gesù, che aveva a Nazaret il padre, la madre, i fratelli e le sorelle, di avere il potere di rimettere i peccati (Matteo, 9, 2-3), di identificarsi con «il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza» (Matteo, 26, 64).

L’annunzio di Gesù quale Figlio di Dio, venuto nella carne, è il cuore della predicazione evangelica. Ed è, insieme, una verità non facile da conservare.

Assai presto sorge l’eresia che nega la consistenza dell’incarnazione; vi succede quella dell’arianesimo, che, a varie gradualità, misconosce che Gesù sia, nel senso pieno e rigoroso del termine, il Figlio di Dio. Gli ariani sono disposti a fare di Gesù l’elogio più alto, a riconoscerlo come creatura supremamente nobile, la prima che fosse uscita dalle mani di Dio. Appunto un uomo meraviglioso, perfetto, ma non un uomo veramente Dio.

Da qui si comprende l’importanza fondamentale del primo grande concilio ecumenico, quello di Nicea del 325. Leggendo la Scrittura nel suo preciso e integrale contenuto, con l’aiuto di categorie concettuali estranee alla cultura biblica ma a servizio della fede cristiana, Nicea definisce Gesù Cristo: «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre»: e fu la definizione che, dopo non poche peripezie e compromessi, anche per la difficoltà di trovarvi un linguaggio uniforme e adeguato, alla fine rifulse come espressione della fede cattolica, grazie ai grandi dottori e pastori della Chiesa, tra i quali ricordiamo Atanasio di Alessandria in Oriente, e Ambrogio in Occidente.

Non si possono studiare le peripezie storiche e ripassare gli appassionati dibattiti linguistici di quel primo concilio, senza restare profondamente commossi e coinvolti; senza ammirare come prodigiosamente in quelle formule all’apparenza secche e levigate salisse ed emergesse il Vangelo, o come vi si inalveasse la stessa Parola di Dio, o la Rivelazione, che si riscontra in atto nella vita di Gesù di Nazaret, nelle sue azioni e predicazioni.

Abbiamo accennato ad Ambrogio: egli succedette inattesamente e contro sua voglia all’ariano o semiariano Aussenzio, ed avvertì subito che tutta la sua opera pastorale si sarebbe dovuta orientare a ricondurre i cristiani della Chiesa di Milano — non solo di Milano — alla pura fede di Nicea. Lo fece nella predicazione, negli scritti e negli inni. Egli avvertiva che senza la fede nicena tutto l’edificio cristiano sarebbe crollato, ravvisando, insieme, con estrema lucidità i molteplici riflessi in dottrina e prassi ecclesiale della verità di Gesù Figlio di Dio, nel senso più rigoroso del termine.

«Contro tutti gli eretici — scrive — sta questa professione della fede cattolica: “Cristo è Figlio di Dio, eterno dal Padre e nato dalla Vergine”. Questa professione di fede (...) è il fondamento della Chiesa» (De incarnatione, v, 33. 35). Gerolamo, che non sempre fu tenero con Ambrogio, e per ragioni forse non del tutto edificanti, avrebbe scritto di lui: «Dopo la morte, che non arrivava mai, di Aussenzio, insediatosi Ambrogio come vescovo a Milano, tutta l’Italia viene ricondotta alla retta fede» (Chrònicon).

© L'Osservatore Romano 25 dicembre 2011